ChatGPT psicologo? Opportunità, rischi e lezioni per i brand dall’uso dell’AI nella psicologia
- Sara Lovato
- 28 ago
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 29 ago
Negli ultimi mesi mi è capitato spesso di leggere riflessioni su LinkedIn e di notare come il tema dell’uso dell’intelligenza artificiale in psicologia e coaching stia diventando sempre più centrale. Anche in Italia il dibattito è vivo: come raccontato in un articolo de Il Post, sono soprattutto i giovani ad aver iniziato a usare ChatGPT come una sorta di confidente, chiedendo consigli su relazioni, emozioni e vita personale.
La domanda è inevitabile: può davvero un chatbot diventare psicologo, coach o persino terapeuta?
Perché le persone parlano con ChatGPT
Secondo Business Insider, il successo di ChatGPT come “confidente digitale” deriva da tre fattori:
disponibilità 24/7: è sempre accessibile, senza attese né appuntamenti;
assenza di giudizio: risponde con tono neutro, non critica, non si imbarazza;
empatia simulata: adotta un linguaggio accogliente che “suona” comprensivo.
Non sorprende che in un’epoca in cui tutto è on demand, anche la psicologia rischi di diventarlo. Viviamo immersi in una logica di just in time, abituati alla gratificazione immediata dei social e a stimoli costanti. In questo scenario, un’AI che ascolta sempre e risponde subito trova terreno fertile. Questo modello ridefinisce le aspettative: se posso ottenere un passaggio in pochi minuti o una serie TV in un click, perché non dovrei avere anche “ascolto” immediato? Il rischio è confondere la velocità di risposta con la profondità del lavoro psicologico, che per sua natura richiede tempo, relazione e continuità.
ChatGPT come coach e confidente: storie reali
Non si tratta solo di teoria. Le esperienze raccontate dal New York Post mostrano come molte persone usino ChatGPT come se fosse un vero e proprio terapeuta. Kat Woods, ad esempio, racconta di preferirlo a professionisti in carne e ossa per la sua disponibilità immediata e la vastità di conoscenze.
Anche studenti e giovani adulti dichiarano di usarlo per interpretare sogni, gestire emozioni o persino “leggere tra le righe” dei messaggi dei propri partner. In altri casi, ChatGPT diventa una sorta di life coach digitale, capace di dare incoraggiamento e motivazione.
Queste storie mostrano quanto sia forte il bisogno di confronto, anche quando il dialogo avviene con un algoritmo. Non è un capriccio tecnologico: è la ricerca di contenimento, validazione e chiarezza in tempi brevi. L’AI, con la sua disponibilità costante, intercetta bisogni legittimi (mettere ordine nei pensieri, trovare parole per emozioni confuse) che spesso non trovano spazio nei ritmi quotidiani.

I rischi dell’AI in psicologia
Se da un lato l’AI offre supporto immediato, dall’altro non mancano rischi significativi. Tra i principali, Business Insider cita la dipendenza, la tendenza a cercare continue rassicurazioni e l’isolamento sociale.
C’è poi un limite strutturale che nessuna tecnologia può superare: l’AI non fa diagnosi, non legge il linguaggio del corpo, non coglie silenzi e sfumature. Non possiede anni di esperienza clinica, non conosce l’empatia autentica e non segue un metodo di lavoro scientifico come accade nella psicoterapia tradizionale.
Affidarsi solo a un chatbot per la salute mentale non è una buona idea: può essere utile per riflettere e organizzare pensieri, ma non sostituisce un professionista. Il punto non è demonizzare l’AI, bensì darle il giusto perimetro: bene come supporto leggero (journaling guidato,brainstorming emotivo); da evitare come unico “canale” quando emergono sofferenze persistenti, traumi o situazioni clinicamente sensibili.
Lezioni per i brand e la comunicazione
Se le persone cercano ascolto e comprensione persino in un algoritmo, significa che il bisogno di relazione è al centro di tutto. Ed è una lezione che riguarda da vicino anche i brand: non perché debbano fare i terapeuti, ma perché devono misurarsi con aspettative relazionali sempre più alte.
Se un utente trova in un chatbot disponibilità immediata, tono non giudicante e risposte strutturate, tenderà ad aspettarsi lo stesso livello di esperienza anche dai brand con cui interagisce. In altre parole, il benchmark non è più il competitor diretto, ma l’ultima interazione digitale soddisfacente vissuta dall’utente.
Ancora una volta va quindi ripensato il modo in cui i brand gestiscono il rapporto con le persone:
Rapidità: risposte veloci, senza frizioni o tempi morti che oggi vengono percepiti come mancanza di attenzione.
Continuità: possibilità di passare senza attrito dal digitale all’umano, dall’automazione alla relazione personale, quando la situazione lo richiede.
Rispetto: linguaggio chiaro, inclusivo, privo di giudizi o automatismi impersonali.
L’AI non rende i brand terapeuti, ma alza l’asticella delle relazioni. I marchi che sanno offrire esperienze veloci, rispettose e con passaggi fluidi verso l’umano guadagnano fiducia. Gli altri rischiano di sembrare lenti, rigidi o addirittura indifferenti.
La vera sfida non è scegliere tra umano o AI, ma imparare a usarli insieme: l’AI come strumento, l’umano come relazione autentica.



